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giovedì 24 marzo 2005

La mia banca mi dice che siamo sottocapitalizzati...



Mi capita di sentire questa frase da amici commercialisti, che la riportano da conversazioni avute con i loro clienti.
E' il segnale più evidente del cambiamento innescato da Basilea 2. In Italia, la "pianificazione fiscale" è stato il criterio dominante, se non l'unico, nella scelta del grado di indebitamento. Questo ha portato a considerare accettabile una situazione nella quale i debiti stanno al patrimonio in un rapporto di 4 a 1 (tale è il limite fino al quale l'azienda può indebitarsi verso i soci qualificati senza incappare nel vincolo di indeducibilità posto dalle regole sulla thin capitalization, senza contare i debiti verso banche o altri soggetti). Naturalmente, non è quello il vero leverage dell'impresa, che supporta il suo rischio con garanzie esterne di tipo reale e personale.
Nei modelli di rating che le banche stanno affinando, la solvibilità è riconosciuta se si vede anche dal bilancio dell'azienda. Da qui nasce la richiesta di rafforzare la dotazione di capitale. Le imprese si stanno interrogando se convenga assecondare questa istanza, oppure continuare come prima a sfruttare al massimo lo scudo fiscale. Un bel problema, non c'è dubbio: in finanza aziendale è il problema cardine delle politiche di finanziamento, ovvero la scelta della struttura finanziaria ottimale.
Ecco una microlezione di finanza che dà alcuni elementi utili ad affrontare il problema. Con l'aumento della leva finanziaria:
- aumenta, con gi interessi, la parte del reddito operativo che viene corrisposta ai finanziatori (ai creditori) prima di essere tassata (soltanto l'IRAP la colpisce), quindi c'è un maggior cash flow distribuito, ai danni dell'erario;
- aumenta però anche l'incidenza degli oneri finanziari sul reddito operativo, e di conseguenza la variabilità del reddito netto e del ROE; peggiora il rating e quindi aumenta il costo del debito nella componente di credit spread, che oggi pesa parecchio (anche il 4-6%) sulla base di tasso risk free (come l'EURIBOR);
- l'imprenditore è chiamato a impegnare il suo patrimonio personale a copertura dei rischi dei debitori; questo patrimonio, se investito in titoli di debito, o fondi comuni, frutta un reddito assoggettato al 12,5% di imposta sostitutiva, quindi molto meno dell'aliquota sui redditi di impresa; però non dimentichiamo che questo patrimonio è aggredibile in caso di insolvenza, quindi è come se il proprietario concedesse una garanzia alla banca a costo zero (in realtà ha un beneficio di minor tasso pagato dall'impresa sul debito).
In conclusione, il risparmio d'imposta sul debito non è un free lunch per tre motivi:
a) l'impresa paga un costo del debito maggiore (l'aggravio dipende dal peso che l'analisi di bilancio ha nel sistema di rating, e dalla griglia di pricing associata);
b) il ROE, ovvero la redditività del capitale netto investito esplicitamente nell'impresa è più variabile, più rischiosa; un ROE mediamente più basso, unito a una minor instabilità potrebbe essere meglio di un ROE mediamente più alto, ma più rischioso;
c) il capitale personale dato a garanzia diventa un investimento esposto a rischio di default, quindi il suo rendimento non è più il tasso risk free sicuro.
Aggiungiamo poi le turbative che un debito eccessivo crea nel clima di fiducia tra manager, proprietari, creditori, clienti, fornitori, ecc.
Mica semplice, il problema. Fino ad oggi non è stato affrontato in maniera adeguata alla sua complessità: ci vuole un modello di pianificazione integrata finanziaria + fiscale per stabilire il punto ottimo nel quale i benefici del debito sono superiori ai suoi effetti negativi. C'è da pensare che in molti casi la richiesta della banche sia degna di attenzione: potrebbero essere i soci i primi a guadagnare dall'incremento del capitale netto messo in azienda.

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