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lunedì 4 gennaio 2010

La via italiana al private equity: i fondi Opera



Il 2010 sarà l'anno del capitale di rischio? Lo scopriremo. Ho capito di più del mercato del private equity in Italia leggendo su ilsussidiario.net questa intervista a Michele Russo, AD del Gruppo Opera:
Qual è l’originalità di Opera?
Investiamo in aziende italiane di medie dimensioni ad alto potenziale di creazione valore. ecco il perché dell’enfasi sul made in Italy. Trovare l’azienda giusta non è facile. Prima di acquisire Gfm, un’azienda di Granarolo faentino, ne abbiamo viste, ed escluse, trecentocinquanta. Occorre trovare l’impresa di cui ci si fida, ma soprattutto quella sulla quale si hanno le idee chiare su cosa farne dopo.

Ammetterà che non è sempre questo l’approccio del private equity.
È vero. Il private equity per me deve avere un percorso vero e proprio di creazione valore, che passa per l’elaborazione di una strategia imprenditoriale, per la sostituzione del management se necessario, per l’ingresso in nuovi mercati, per il consolidamento di più aziende in una, che non è necessariamente il taglio dei costi. Il problema è che il private equity, nei paesi anglosassoni ma anche da noi, è involuto in una cosa diversa.

Come lo spiega?
Il perché ha a che fare col modo generale di concepire la ricchezza e l’investimento. Io le posso dire quello che accade. Sono cresciute a dismisura le dimensioni dei fondi. Prendiamo il caso dei nostri 80 milioni. Se riesco a farmi pagare delle management fees del 2 o anche dell’1,5 per cento, nel caso nostro avrò 1,6 milioni l’anno per la gestione, nei quali devo fare stare tutto. Invece se ho un fondo, mettiamo, di 8 miliardi alla fine dell’anno dispongo di 160 milioni solo perché ho aperto l’ufficio. La mia convinzione è che 160 milioni mi distraggono anche dal motivo per cui io esisto. Il mio obiettivo non è fare molto bene con i soldi che ho in modo da guadagnare una fetta di utile, il cosiddetto carried interest. Mi stimola, in modo controproducente, a spendere i soldi subito, a dimostrare che li ho spesi bene, a fare un altro fondo e dopo a farne un altro ancora. Alcuni private equity hanno commesso questo errore, di crescere a dismisura, trasformandosi in un asset management senza avere come obiettivo la creazione di valore reale.

Lei invece come lavora?
Prima di fare un’offerta seria stiamo in azienda un mese. Vogliamo capire, insieme all’imprenditore, cosa ne faremo noi, dopo. Non perché siamo più bravi, ma perché ci interessa capire come l’azienda può crescere. Così facendo il discorso dalla singola azienda si allarga e comprende il distretto.

E' possibile portare questa filosofia in operazioni e società di taglia ancora più piccola? Questa è una delle sfide del 2010.

Luca

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2 commenti:

Sapio ha detto...

Bella, mi è piaciuta. Dice cose sensate.

Gigi ha detto...

E' un bel parlare, ma non ci si può affidare alla buona volontà di un operatore. Occorrono meccanismi di buon funzionamento (e forse le management fees dovrebbero essere fees di risultato e non di gestione) e meccanismi di controllo efficace (rappresentanti degli investitori in CDA, nei revisori dei conti?). Finché è possibile raccogliere centinaia di milioni e poi non si sanno come spendere, l'unico scopo dei fondi non può essere diverso da quello di raccogliere, anziché impiegare (bene, ovviamente).