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lunedì 16 maggio 2011

Essere padri

Esattamente un anno fa, domenica 16 maggio, moriva mio papà. Perché il ricordo di questo avvenimento non svanisca nel tran tran del lunedì, accosto due pensieri che mi hanno colpito nelle ultime settimane. Un accostamento singolare.


Il primo pensiero è di don Giussani, dal Senso religioso (pag. 53-54):

A una attenta riflessione sulla  propria  esperienza  l'uomo scopre nel suo presente  due tipi di realtà.
a) Un tipo di realtà,  che egli ritrova in se stesso, è lungo o largo, pesante o leggero, quantitativamente descrivibile. Diciamo  una parola precisa: misurabile. [...]
Il tipo di realtà  che presenta le caratteristiche  appena indicate  potrebbe essere definito  con  un  termine generico: materiale. È la materialità.
b) Se  l 'uomo  però è  totalmente  impegnato in quell'istante di riflessione su di sé, noterà nel suo «io»  un tipo di  contenuto che non si identifica con ciò che finora  abbiamo descritto.
L'idea di  bontà,  per esempio, quel criterio che ci si ritrova dentro per cui si può dire di qualcuno: «È buono», questa idea  non  potrebbe essere misurata, quantificata, e non si modificherebbe nel  tempo.  Quando da bambino guardavo mia madre «sentivo» -  anche se  non riflessamente -  come era  buona. «Mia madre è buona», dico adesso e, a parte la coscientizzazione diversa, approfondita, è la stessa idea di  bontà a  determinare la mia affermazione. Mi trovo assolutamente  identico nel contenuto di coscienza della mia infanzia:  non mutevole.
Il secondo è la chiusa di Dona Lüseerta, una canzone del CD Yanez, di Davide Van de Sfroos (qui l'originale completo e tradotto):
Non sarà mica questa polaroid, con su una faccia che si è scolorita, a cancellare la mano che mi ha tenuto in braccio. 
Yanez è in realtà Tiziano, il papà di Davide morto qualche anno fa. Il disco nasce dalla ricerca di quello che rimane da un'esperienza così dolorosa, che svela senza appello la caducità delle cose umane, e non risparmia quelle più care. La stessa canzone prima dice "quando il tempo finisce la benda, comincia a usare il curlasc" che sarebbe la roncola, il machete.
La tentazione di decapitare la tristezza col machete è forte quando si entra nella maturità: ricaviamo una nicchia, uno spazio per noi; ci attacchiamo alle cose che allietano, rassicurano, o distraggono e a tutto il resto, zac!, ci diamo un taglio.
Non è umano. Se riflettiamo sulla nostra esperienza genuina, profonda, scopriamo che il Bene è eterno, incorruttibile, indistruttibile. Ed è reale, ci ha raggiunto, prima di tutto attraverso chi ci ha messo al mondo e ci ha tirato su (l'usura del tempo non "scancella" la mano che mi ha tenuto in braccio). Questa Bontà non la perderemo mai. Con tutti i nostri limiti nel compierla (il rimpianto più doloroso quando ci lascia una persona cara è non averle voluto bene abbastanza, ma chi ne è capace con le sue forze?).
Essere padri vuol dire far tesoro di questa tristezza, farsene sommuovere riscoprendo ogni giorno il Bene che non muore e riprendere il cammino, perché gli altri Lo scoprano nel nostro sguardo, nel modo in cui trattiamo la realtà. Questa sollecitudine amorosa è il nutrimento, il respiro di una vita degna di essere vissuta sempre, in qualsiasi circostanza.
Un abbraccio forte a mio papà, Giuseppe, e a mia mamma, Carmelina.
E buona settimana a tutti voi. Stampa questo post

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