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mercoledì 3 agosto 2011

Dioguardi: piccola impresa made in Italy, if it ain't broke don't fix it

RoeRos mi ha ricordato di un bell'articolo di Gianfranco Dioguardi a commento di una ricerca della fondazione IRSO sulle Pmi italiane uscito sul Corriere della sera: Sono piccoli e forti, non fateli crescere per forza. Cito:

Il fenomeno è bizzarro, alquanto strano e difficile da interpretare. Il sistema delle imprese italiane (che sono in genere di dimensioni medio piccole) si afferma sui mercati mondiali per l’efficacia e l'efficienza che caratterizza i risultati conseguiti, creando valore in forme innovatrici e competitive, nonostante si trovi costretto a operare in uno scenario nazionale certamente preda di una forte crisi, oramai endemica, che si traduce in un sostanziale declino del sistema paese, in particolare se riferito ai contesti europei e a quelle delle aree emergenti. L’affermazione
Eppure... eppure le imprese italiane reagiscono con caparbietà e continuano ad affermarsi nonostante tutto. Parrebbe quasi che lo stato di crisi e di scarsità, l'incombente indisponibilità di risorse e di infrastrutture, servano a stimolare fortemente una reazione fatta di ottimismo imprenditoriale di tipo quasi primordiale, grazie al quale lanciarsi alla ricerca — come per contrasto — di affermazioni delle singole imprese da conseguirsi a tutti i costi.
Rimango perplesso di fronte alla schizofrenia del dibattito sulle imprese italiane: studi come quello citato rispondono a chi lamenta nanismo, familismo, spontaneismo, elogiando la capacità miracolosa delle nostre Pmi di stare sul mercato globale, come un calabrone che non dovrebbe volare, eppure ...
If it ain't broke don't fix it: finitela di rompere con la fissa di aggiustare una macchina che va bene.
E' urgente uscire da questo ping pong di luoghi comuni. Dioguardi ha ragione là dove lascia intendere che gli alfieri della riqualificazione delle imprese propongono diagnosi forbite e ricette ispirate, ma le imprese non sanno che farsene. Agenzie per lo sviluppo, programmi di private equity, sportelli internazionalizzazione, parchi tecnologici, mentori e incubatori, contratti di rete: servono davvero? A giudicare dal tasso di nati-mortalità di queste iniziative, c'è da dubitarne.
Per fortuna le imprese non stanno ferme, e fanno da sé (come conferma il Rapporto 2011 della Fondazione Nord Est sull'Italia delle imprese). Ma ha senso a tenere in piedi una sovrastruttura di supporto che serve a poco, e di fatto distribuisce aiuti a pioggia a beneficio di burocrazie lontane dal punto infocato dei problemi, tutte tese a difendere la fetta di budget, che si trattengono per il servizio?
E' positivo che le rappresentanze d'impresa, in accordo con i sindacati, chiedano alla politica una discontinuità nel governo dell'economia. I nove impegni per la crescita proposti dal Sole 24 ore sono sensati. Ma perché Confindustria, R.ETE imprese Italia, l'Ordine dei commercialisti non danno il buon esempio in casa loro e negli Organi in cui contano (come le Camere di commercio), spendendo diversamente i soldi che hanno in mano, servendo le imprese con maggior efficienza, presa sui problemi, intensità?
Tutto cospira a soffocare le istanze di rinnovamento nei centri in cui si decide la politica industriale. Eppure non c'è alternativa al rinnovamento dall'interno della classe dirigente, degli organi di governo, che devono diventare più operativi, avere l'ossessione di far funzionare le cose meglio che si può.
Come fanno le imprese più sveglie, sono loro l'esempio da seguire.
Non aspettiamo l'autunno caldo, con le piazze piene di lavoratori senza lavoro, giovani indignati senza futuro, imprenditori senza mercato. Non possiamo permetterci rivoluzioni senza una direzione e un'ipotesi costruttiva.
E non chiediamo alla politica di fare il primo passo. Non può camminare sospesa nel vuoto. Stampa questo post

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