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lunedì 19 marzo 2012

Dall'Economist: imprese italiane in saldo

Nell'ultimo numero l'Economist parla del crescente interesse di investitori stranieri per imprese italiane con brand e prodotti desiderabili. Non mi è piaciuto il quadro che disegna del sistema di finanziamento delle nostre imprese:

AFTER a decade of bunga-bunga and a year of financial turmoil, corporate Italy is feeling sick. But a crisis for some is an opportunity for others. The past year has been a great time to buy Italian companies.
Two factors make them attractively cheap. One is the weakness of the euro, which has lost 15% against the Chinese yuan, 19% against the Japanese yen and 9% against the dollar since the start of 2010. The other is the near-paralysis of Italy’s domestic banking system. Rickety banks are reluctant to lend to local firms.
Cash-strapped firms that cannot borrow often try to raise equity instead. Many are looking outside Italy. Foreign direct investment has soared. From the last quarter of 2009 to the third quarter of 2010, Italy attracted only $796m. The next year the inflow jumped eightfold, to $6.6 billion. The takeovers by French firms of Bulgari, a luxury-goods firm, and Parmalat, a dairy group, accounted for much of the rise.
Cheap luxury is often the lure. Italy is packed with financially precarious firms that make desirable products with glamorous brand names.
Le nostre banche sarebbero rickety (traballanti), le imprese cash strapped (al verde), quindi costrette a cercare denaro fresco all'estero, sia dalle piazze emergenti (Cina, Russia, India) sia da USA e Regno Unito, dove le grandi  corporation hanno riserve spaventose di liquidità (vedi altro articolo sullo stesso numero).
Il tutto in un quadro macro-finanziario che dovrebbe far tornare attraenti le azioni per il grande pubblico, nonostante le bolle e i rendimenti negativi dal 2000 in poi (come commenta questo ricca analisi sull'equity risk premium).
Nella perfida Albione si parla male di noi per superiority complex. In questo caso, forse, "chi disprezza compra". Però hanno ragione nel dire che l'Italia soffre di ingessamento dell'infrastruttura finanziaria. Banche, mercato di Borsa, private equity, grandi gruppi e salotti buoni non hanno fatto scoccare scintille tra le imprese dinamiche e gli investitori grandi  e piccoli. La cultura finanziaria è tre gradini sotto il talento imprenditoriale.
Le cose che non si sanno si possono imparare, siamo un paese di gente sveglia. Però i reggitori del nostro sistema finanziario sono oggi completamente assorbiti dal contenimento del debito pubblico. La finanza privata sembra incapace di rilanciarsi con le sue forze, ed ecco che lo Stato deve intervenire anche lì nel private equity (Fondo Italiano di Investimento), nel credito alle Pmi (Cassa DDPP, Fondo centrale), ecc.  Tra i capitali e le imprese sta un pletorico sistema di intermediazione che pensa prima di tutto ad auto-mantenersi. Alla fine, come è umano che accada, le risorse vanno ai soggetti più tutelati, e il sistema non evolve, non matura, non innova. Anche dall'estero se ne accorgono.
Un vero cambiamento può soltanto partire dal basso. Dalle imprese, dagli intermediari, dagli investitori. Dalle persone che fanno i conti concretamente con queste difficoltà, caricandosele sulle spalle.


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