lunedì 4 aprile 2011

Dopo gli studi, l'antieconomicità: il bizzarro dovere di produrre reddito - Il sole 24 ore

La lotta all'evasione è importante per le finanze pubbliche e per i principi costituzionali. I cattivi comportamenti e il bisogno di far cassa hanno indotto il Fisco a dotarsi di meccanismi di accertamento più stringenti. Come l'applicazione del concetto di antieconomicità, a cui il Sole 24 ore di oggi dedica ampio spazio. Cito la definizione:

Con il concetto di antieconomicità, si fa riferimento all'alterazione di componenti positivi e/o negativi di reddito in violazione del principio della corretta rappresentazione (come, ad esempio, puntuale registrazione di ricavi o compensi e inerenza di costi e spese). Di conseguenza l'antieconomicità, secondo l'amministrazione diventa comportamento riconducibile all'evasione fiscale. C'è, quindi, una sostanziale differenza con l'abuso del diritto o l'elusione.
In concreto, gli uffici tributari, considerando antieconomiche determinate scelte imprenditoriali, rettificano la dichiarazione, in base al principio secondo cui chiunque svolga un'attività economica è indotto a ridurre i costi o a massimizzare i ricavi. Può essere che così si impiglino nella rete i furbi che impoveriscono l'impresa ad arte. Peccato che siano colpiti anche gli imprenditori che lottano contro la crisi mantenendo i livelli occupazionali o investendo: sono periodi nei quali fare impresa in settori non agevolati richiede molto fegato, e dà ritorni nel migliore dei casi differiti nel tempo. Leggete la citazione di Einaudi in questo post per cogliere l'aberrazione insita nella sfiducia di principio verso l'impresa.
Opacità, impersonalità e sospetto distorcono i rapporti tra imprese e fisco. Penso che con l'attuale diritto tributario balcanizzato alla fine le piccole imprese paghino, tra lusinghe e minacce, quello che pagherebbero con un sistema più snello e pulito. Ci sono i grandi evasori e truffatori dell'Erario, ma penso che vadano cercati con azioni repressive teleguidate (come si sta facendo), anche se non è facile distinguere tra colpevoli e ignare vittime, e mettere i primi in  condizione di non nuocere.
Si dovrebbero creare delle zone franche di trasparenza, prossimità e fiducia tra gruppi di imprese e amministrazione finanziaria, potenziando il ruolo dei centri di assistenza fiscale, promuovendoli a garanti della sana gestione e, quindi, dei rapporti corretti col fisco. In cambio, gli uffici dovrebbero concedere una tassazione semplificata. Il tutto si può subordinare a una clausola di salvaguardia di un gettito minimo, riferito alle imposte passate o a parametri di incidenza su grandezze non facili da falsificare, come il valore aggiunto.
Le imprese che aderissero a queste isole di buona gestione fiscal-finanziaria incasserebbero il dividendo della semplificazione amministrativa, liberando finalmente il parabrezza delle incrostazioni che impediscono di vedere nei propri dati contabili le vere performance dell'impresa.
Sognare non costa nulla. Ma contro il sogno di un fisco da homo sapiens non si oppongono soltanto li arcigni gabellieri, ma (tacitamente) anche dell'industria dei servizi professionali e informatici, che vive anche dei bizantinismi e della mutevolezza del quadro normativo e sanzionatorio. Vive male, però.
Ieri costruendo un piano scopro da un amico commercialista che il 10% dell'IRAP versata l'anno precedente è deducibile a fini IRES. Non ha senso dare lo zuccherino per addolcire il tributo più detestato, figlio primogenito della lotta all'elusione, e far diventare la dichiarazione un guazzabuglio. Provate a calcolare in Italia l'aliquota fiscale media effettiva sul reddito di impresa, parametro chiave delle decisioni finanziarie. Calcoliamo le rettifiche fiscali ad personam con un sistema tipo gratta e vinci. Pago un fisso e, se sono fortunato, mi becco una detrazione extra pari a un multiplo. Sarebbe più semplice e divertente e, probabilmente, meno iniquo.

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