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giovedì 6 luglio 2006

Pensieri in libertà sul decreto liberalizzazioni



Ieri ho corretto qualche decina di elaborati con la Commissione Esami di Stato per dottori commercialisti. Quest'anno l'onore di presiederla è toccato a me. Fa parte dei doveri di un professore di materie aziendali. Ho avuto modo di constatare il livello di preparazione di un campione di laureati in economia che hanno svolto un praticantato di tre anni e intendono svolgere la libera professione.
Nota curiosa: all'università di Trento, i candidati nostri laureati sono pochissimi. Mi raccontano di fenomeni migratori verso altre sedi dove le statistiche delle probabilità di default sono più rassicuranti. E' assurdo. L'ordine provinciale ha una politica della formazione, investe su iniziative comuni con l'Università e i suoi praticanti vanno altrove a farsi valutare.

Il quadro non è esaltante. La preparazione della maggioranza dei candidati è lacunosa, sia sulle materie aziendali, sia su quelle giuridiche. I colleghi commercialisti hanno spiegato che in molti studi il praticante fa lavori di routine: non ha tempo, stimoli, riferimenti autorevoli per studiare e apprendere a 360°. Il problema è la piccola dimensione di molti studi, e anche certe tradizioni di gavetta (diffuse ad esempio anche in ambiente medico) per le quali questa professione esige nei primi anni il sacrificio di lavorare per pochi soldi.
Non è un sistema molto efficace. Una professione ha un futuro se è capace di attrarre persone capaci e di formarle. Mi sono convinto che nell'attuale sistema non ci sono risorse, né incentivi affinché si lavori così. I commercialisti sono in media molto competenti, e ci sono studi associati gestiti in modo manageriale, nei quali i giovani vengono messi a fare cose nuove e interessanti (business plan, operazioni straordinarie). Non è però la norma. In molte città dove non ci sono problemi di disoccupazione intellettuale si fa fatica a trovare giovani bravi, parenti e affini a parte.
Se vogliamo fare un salto di qualità nell'assistenza amministrativa e finanziaria alle imprese, bisogna fare qualcosa. Nel decreto Bersani, di cui si discute animosamente in questi giorni, si tocca anche il tema delle professioni. Si parla di abolizione delle tariffe minime, di incoraggiamento delle società di servizi professionali, di pubblicità. Più mercato. Il disegno di liberalizzazione risponde a una situazione che non è ottimale, questo è fuori di dubbio. Attenzione però a non vedere nelle liberalizzazioni (che poi vanno attuate, e "il diavolo si nasconde nei dettagli") una panacea. Sbloccare qualche privativa non attiva automaticamente maggiore concorrenza sui prezzi e, soprattutto, sulla qualità dei servizi.
Per gli ordini, si tratta di un'occasione per rilanciare la loro mission. Bisogna investire risorse, ripensare i percorsi di formazione, l'uso dell'informatica, l'organizzazione degli studi. Occorrono soluzioni diverse per realtà piccole e grandi, generaliste e specializzate. Occorre mettere al centro i bisogni delle aziende, che stanno cambiando.
L'attuale governo sta provando a dare una scossa a diversi settori. Discutiamo seriamente, con realismo, degli effetti, di quelli dannosi, ma anche di quelli positivi, che possono venirne fuori per gli operatori "colpiti". Che il dibattito non si riduca alla contrapposizione tra interessi particolari da difendere e ricette astratte.

Luca

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