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lunedì 15 ottobre 2007

Derivati e trasparenza del costo del credito



Avete visto Report domenica sera? L'inchiesta di Stefania Rimini puntava il dito sui derivati legati ai tassi di interesse, sull'uso ed abuso che ne è stato fatto, in Italia, da imprese ed enti pubblici. Puntata avvincente. Mia moglie, che conosce i derivati dall'analisi grammaticale, stava leggendo "Il cliente" di John Grisham vicino a me, ha chiuso il libro per seguire la trasmissione. Io ne capisco abbastanza, e ho apprezzato i passaggi tecnici, dove l'autrice è riuscita a spiegare chiaramente (per quanto possibile) concetti ardui come il costo implicito o il fair value di un contratto. Ci è riuscita con un gioco di contrasti tra le risposte di ignari utilizzatori e competenti analisti.
E' un dato di fatto: tra il 2000 e il 2006 molte banche hanno fatto business con i derivati, su tassi e su altro, e si sono lasciate prendere la mano. Non lo hanno fatto soltanto con le imprese, ma anche sulla raccolta (vedi alla voce obbligazioni strutturate). Alcuni clienti sono stati al gioco con intento speculativo: cercavano il rischio, non tutti erano capaci di valutarlo, ma sapevano che c'era. In molti altri casi i contratti sono stati spinti dalle reti facendo leva su argomenti vari: pagamenti iniziali "civetta" a favore dell'impresa, migliori condizioni sulle linee di credito, insistenza sull'intento di coprire i rischi, rassicurazioni sull'alea, modesta o favorevole al cliente. I clienti che ci hanno rimesso sono la maggioranza: lo dicono i dati di Centrale rischi, che segna un'esposizione da fair value di qualche miliardo di euro a credito delle banche.
Non c'è da meravigliarsi: i contratti partivano con un fair value negativo per il cliente, una sorta di commissione di collocamento implicita.
Su un prodotto nuovo, anche meno esotico, capita di pagare una fee salata: basti pensare al prelievo dell'8-15% che colpisce i primi versamenti su alcuni fondi pensione integrativi o prodotti assicurativi (stanno calando, per fortuna). Nel caso dei derivati, però, al danno immediato del valore di collocamento si è aggiunto il danno latente della posizione corta sulla volatilità che le imprese hanno, di regola, assunto (come nei contratti con rebate che al superamento di tassi soglia facevano scattare payoff a carico del cliente moltiplicati per fattori di leva).
Delle eventuali responsabilità si sono occupati, e si stanno occupando, in molti: CONSOB, tribunali, collegi arbitrali. Non è di questo che mi voglio occupare. Preferisco affrontare il problema dal lato delle imprese: che cosa occorre fare per stare alla larga da questo genere di rischi non desiderati e non remunerati?
Primo: gestire tesoreria e rischi finanziari in maniera semplice. Già i rischi di business sono complicati per la loro parte. Meglio imparare a gestire bene i prodotti di finanziamento e di copertura di base, che hanno mercati liquidi e prezzi noti. Le grandi imprese fanno così (hanno preso anche loro delle scottature, vedi Procter and Gamble).
Secondo: non comprare prodotti che non hanno un'utilità diretta e comprensibile rispetto a problemi specifici dell'impresa. La banca che mette in catalogo prodotti di trading fa business vendendoli, ricomprandoli e rivendendoli. Non è detto che siano tutti degli imbrogli, ma se non si capisce a che servono, e perché, allora "no, grazie".
Terzo: accettare più trasparenza e sensibilità al rischio nel prezzo del credito. Le banche che hanno spinto sui derivati l'hanno fatto anche per compensare il calo degli spread creditizi dovuto alla concorrenza sul prezzo palese del credito. Le imprese intervistate da Report che affermano di aver chiuso per le perdite su derivati erano forse già in situazione precaria, e anche per questo non hanno saputo dire "no, grazie" al derivato. Meglio sarebbe stato un aumento di tasso e un piano di ristrutturazione, meglio ancora prevenire le tensioni con azioni volte a rafforzare il rating
E' anche un problema di modelli di business bancari. La banca-impresa, e non più istituzione, cerca la redditività del capitale. I prodotti nuovi ad alto margine sono una leva ad effetto rapido per queste politiche, e a maggior ragione lo sono quando generano un indotto di trading in cui la banca fa i prezzi in acquisto e in vendita. Queste idee non sono nate nel 2000 in Italia, ma negli USA nella prima metà degli anni 90. Generano uno strascico di contenzioso e di reputazione appannata, ma la redditività ex post rimane elevata se il "minusvalore" percepito dai clienti, e le conseguenti reazioni, rimangono entro limiti fisiologici.
C'è spazio per modelli di business di respiro più largo?

Luca

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