Sapio mi segnala questo post conciso e molto sensato dal blog di Giuseppe Turani:
Il credito alle piccole imprese è reso complicato da varie ragioni. La più importante è che i loro bilanci (redatti dal ragioniere del piano di sotto) di solito non dicono niente o quasi sullo stato di salute dell’azienda. E così le banche, quando fanno credito e queste entità, non lo fanno a loro, ma ai loro clienti. In sostanza, le banche scontano gli effetti che i clienti danno alle piccole imprese: se questi clienti sono buoni (medio-grandi e solvibili) non ci sono problemi. Se invece i clienti sono a loro volta piccoli (e indecifrabili) il credito si intoppa e per ragioni evidenti: di questi tempi dare soldi in giro è comunque rischioso. E più che mai a entità di cui non si riesce a valutare la solidità e il giro reale di affari. E qui non ci sono molte soluzioni. Ricorrere ai prefetti serve a poco. In realtà le banche sono avare di credito (e spesso con ragione) nei confronti di questi soggetti. Qui l’unica soluzione sembra essere quella che molti chiamano con l’espressione “credito di prossimità”, cioè di amici, conoscenti, fornitori. Secondo alcuni osservatori della realtà industriale italiana, però, l’unico “credito di prossimità” raggiungibile oggi (in tempi di crisi) sembra essere il patrimonio privato (quando c’è) del titolare dell’azienda o della sua famiglia. Difficile che di questi tempi il macellaio del quartiere si metta a finanziare l’aziendina di impianti elettrici del ragionier Rossi (della quale nulla sa, al pari delle banche).Nel dibattito recente sulla crisi è entrato di prepotenza il tema della coesione sociale a rischio (vedi ad esempio le dichiarazioni del neo-segretario del PD Bersani). L'ultima, amara riflessione di Turani indica una ferita aperta, rispetto a cui urge fare qualcosa. Molte aziende saranno costrette a chiudere, ma questo non è motivo sufficiente per abbandonarle a se stesse. Pensare a loro e a quelle che hanno la forza per farcela sono due facce di uno stesso problema.
In sostanza, o dietro queste piccole aziende ci sono dei patrimoni, dei risparmi, oppure sono abbastanza segnate (se non hanno una clientela di prim’ordine, di cui le banche possono scontare felicemente gli effetti).
Con un pericolo. Al di sopra di queste piccole imprese un po’ nei guai, ci stanno le 4500 imprese medie (il Quarto Capitalismo), che rimangono abbastanza solide anche dentro la crisi, perché hanno strutture patrimoniali serie, clienti e tecnologie. Ma questo gruppo di aziende-super in realtà vivono molto del lavoro delle piccole imprese (che sono loro fornitrici): se gli cadono quelle di sotto, anche loro finiscono nei guai.
La faccenda, come si vede, è complicata. Spesso non ci sono proprio i requisiti minimi per dare soldi alle piccole imprese. Ma, d’altra parte, queste continuano a essere (nella loro modestia) elementi fondamentali per il buon funzionamento del sistema Italia.
Di soluzioni facili non ne esistono. L’unica vera soluzione sarebbe quella di non avere una crisi come quella che abbiamo o di essere in grado di uscirne molto in fretta, nel giro di poche settimane. Invece, la crisi c’è e se ne uscirà molto lentamente. E questo, per tante piccole imprese (anche valide) vuol dire avviarsi, inevitabilmente, verso la scomparsa. Verso la chiusura e l’uscita dal mercato.
Luca
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