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martedì 31 gennaio 2012

Maxi-stipendi in banca: quasi metà sono rendite, secondo uno studio sugli USA

Da un articolo di Gillian Tett sul Financial Times (interessante quanto lo è l'autrice) sono risalito a un paper di due economisti americani, Thomas Philippon e Ariell Reshef, dal titolo Wages and human capital in the U.S. financial industry: 1909-2006. Parla del tema caldo delle paghe ai manager bancari, e più in generale della fetta di PIL di cui si appropria il settore finanziario per i suoi servigi al resto dell'economia. La questione che sta innescando moti di protesta diffusi, come Occupy Wall Street e gli indignados europei.

Il paper nota che a inizio secolo gli stipendi dei bancari erano allineati con il resto dell'economia. Nei decenni successivi sono saliti, in termini relativi, toccando l'apice di 1,7 volte in corrispondenza della crisi del 1929. Negli anni della Grande Depressione, le banche sono state abili nel difendere paghe attraenti. Soltanto con gli sconvolgimenti portati dalla seconda guerra mondiale le paghe del settore finanziario si sono riallineate con il resto dell'economia. Dal 1979 in poi, con il ritorno a tassi reali positivi, la deregulation e tutto i resto, si è tornati ad una crescita più rapida degli stipendi in banca, tendenza che è durata fino allo scoppio della crisi del 2008. Secondo lo studio, chi lavora in banca guadagna di più nei periodi in cui cresce la complessità (e l'instabilità) dei mercati. Sarebbe quindi "premiata" l'abilità dei trader e dei dealmaker, risorsa scarsa e foriera di lauti guadagni (finché dura). La scarsità dei "talenti", in un mercato dove su continua a guadagnare da operazioni opache e sussidiate, alimenta le rendite.
Non c'entra nulla l'aumento di produttività dovuto all'innovazione tecnologica, che non si evidenzia. Anzi. uno studio più recente di Philippon nota che il costo per il sistema economico dell'intermediazione finanziaria (ovvero il peso sul PIL degli stipendi e dei profitti del settore finanziario) negli USA è quasi raddoppiato: dal 5% nel 1950 al 9% nel 2010. I guadagni di efficienza dovuti alla tecnologia se li è mangiati l'attività di trading e di distribuzione, che ha generato margini gonfiati cui corrispondono benefici economici reali del tutto discutibili.
Mi fa piacere che anche nel dibattito scientifico escano argomenti di critica alle patologie della finanza ad alta leva e ad alta sofisticazione. E' importante che queste critiche alimentino un lavoro imponente di ridisegno del sistema finanziario. La questione cruciale non è chi sono i colpevoli o chi deve pagare, ma come fare per sgonfiare e riassorbire gli eccessi e le storture senza fare disastri. C'è voluta la guerra più terribile della storia per smaltire la crisi finanziaria post 1929. Cerchiamo di evitare una replica del protocollo di cura.
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3 commenti:

Gigi ha detto...

Sull'"abilità" premiata o meno dei trader e dealmaker consiglio di leggere a fondo Nassim Nicholas Taleb (quello del Cigno Nero, ma non solo, per intenderci). La sua discettazione sulle "teste vuote in giacca e cravatta", p. 161 e successive del Cigno Nero, è esauriente ed illuminante. Non entro nei dettagli per non togliervi il piacere della lettura o rilettura, ma troverete di che giustificare una netta riduzione degli emolumenti.
Ma Taleb non è l'unico.
Roubini, in "La crisi non è finita" dice chiaramente a proposito del moral hazard "il sistema dei bonus, incentrato sugli utili a breve termine realizzato nel corso dell'anno, incoraggiava l'assunzione di rischi e il ricorso a un grado eccessivo di leva finanziaria". p.88
Un economista a cui sono particolarmente affezionato, Paolo Sylos Labini scrive a proposito di questi temi già nel 1956 in una prima edizione limitata di "Oligopolio e Progresso Tecnico.". L'edizione che ho io (rigorosamente e doverosamente fotocopiata da un prestito bibliotecario, visto che non si trova più in commercio!!!) è quella del 1975, la quarta ed ultima.
A p. 150, parlando della redistribuzione dei profitti oligopolistici (superiori alla norma, ovvero a quelli di concorrenza perfetta): "Innanzi tutto, occorre considerare il metodo più ovvio, ma anche il meno discusso, attraverso cui si possono ripartire via via i profitti superiori alla norma: gli stipendi molto elevati che nelle socitetà per azioni i dirigenti in definitiva assegnano a se stessi. In un mondo dominato da grossi complessi oligopolistici, questi stipendi non servono semplicemente a remunerare le prestazioni di uomini dotati di capacità particolari o addirittura eccezionali; e tanto meno sono correlati con una fantomatica «produttività marginale» di tali prestazioni; questi stipendi, in realtà, incorporano una parte degli extraprofitti di oligopolio e servono a qualificare lo «status» (come dicono i sociologi) dei dirigenti: divengono, quindi, quasi una «necessità» del sistema. Se tutte le grandi società per azioni seguono una condotta, sotto questo aspetto, collusiva, la fetta degli extraprofitti oligopolistici che viene ad avere una tale destinazione può divenire grande." Seguono altre interessanti considerazioni, che ora non riporto per brevità. Sylos Labini, cita questo pezzo nel suo più recente "Torniamo ai classici" del 2004, con scritti del 2003 (p. 121). Subito dopo, p. 122: " Da notare che la trasformazione di una parte dei profitti in compensi ai top manager, anche se non dà luogo a perdite, va a scapito delle riserve, che servono proprio quando vi è bufera"
Verso la fine di questo saggio il buon Sylos Labini conclude (ripeto siamo nel 2003!): Almeno per ora, dunque, confermo la mia diagnosi, secondo cui la crisi è molto seria. Il problema centrale, che a mio parere rende incerta e probabilmente lontana la ripresa, è quello dei debiti a lungo termine, ossia degli immobilizzi[nello specifico si riferisce al debito americano, ma in realtà allude al problema in generale]. Non credo convenga riesumare la formula Iri, come pare voglia fare il Giappone. Forse bisognerà pensare a un'altra soluzione, in cui tuttavia l'intervento pubblico svolga pur sempre un ruolo di rilievo per rendere sostenibili i debiti a lungo termine, promuovendo attivamente, nello stesso tempo, misure per la ripresa." Seguono altre considerazioni sul commercio e la concorrenza internazionale nonché sulle specifiche difficoltà italiane. La chiusura del saggio infine si avvia con una citazione di Keynes che trovo del tutto adegutata al momento: "una caratteristica preminente del sistema economico nel quale viviamo è che [...] esso sembra capace di rimanere in una condizione cronica di attività inferiore al normale per un periodo considerevole, senza una tendenza decisa verso la ripresa o verso la rovina totale." Teoria Generale, p. 221

Anonimo ha detto...

@Gigi: grazie per i preziosi consigli di lettura e rilettura. La spiegazione di Sylos Labini è chiara come il sole.

Timothy ha detto...

Gigi e' candidato in pectore alla presidenza di bce e fed.
Per il resto la strada e' tracciata. Manca forse il coraggio dell'avvio.