Consiglio di lettura: un articolo dell'Economist sulle investment bank statunitensi dopo la crisi. Tempi non facili, fine di un mondo secondo molti. Ma le due case che hanno retto ai colpi del turmoil, Morgan Stanley e Goldman Sachs, stanno riorganizzandosi per tornare ad essere quei motori di sviluppo dei business finanziari e quelle fabbriche di utili che sono da sempre. L'attività su derivati complessi, leveraged loans, mutui, hedge funds e private equity è calata a picco, ma in compenso sono rimasti alti i volumi sui comparti classici, come l'azionario, i cambi, i bond, i CDS, i tassi di interesse, per non parlare del grande e ricco mercato dei distressed assets che la crisi ha rifornito di materia prima abbondante. Lloyd Blankfein, CEO di Goldman, vuole quindi tornare a far rendere il patrimonio almeno il 20% medio annuo sull'intero ciclo, giocando sulle strategie di proprietary trading aggressive e non convenzionali che sono la marcia in più di questa banca. In effetti, quando la crisi era limitata al comparto mutui, Goldman Sachs ci aveva persino guadagnato con posizioni corte sui subprime.
Meno ottimiste le migliaia di persone che hanno perso il lavoro. Il settore finanziario non è immateriale, pesa sul PIL reale, ne genera (o ne assorbe) una fetta consistente, e ne condiziona lo sviluppo, finanziando la crescita, trasferendo le eccedenze di risparmio, alimentando focolai di instabilità. In questa crisi inedita ci siamo resi conto che le filiere produttive e i flussi finanziari hanno creato una trama di interdipendenze dipendenze globali che sono un punto di non ritorno. Questa economia non può fare a meno di questa finanza, che però vorremmo meno arrogante ed esosa. La scoppola presa con la crisi basterà a far trattenere questo insegnamento?
Luca
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