Sul blog ho scritto occasionalmente di contratti di rete, l'istituto pensato dal Governo precedente per favorire progetti di collaborazione tra imprese finalizzati all'innovazione a alla competitività. Ieri ne ho parlato in pubblico ad un seminario dal titolo "Le reti di imprese, le banche e il finanziamento dei programmi di rete" organizzato dai colleghi giuristi della mia Facoltà, Fabrizio Cafaggi e Paola Iamiceli.
Sul tema "contratti di rete" ho difficoltà a farmi un giudizio. Da un lato lo apprezzo come forma innovativa di collaborazione tra imprese; amici commercialisti che stimo stanno lavorando molto per promuoverli in tutta Italia. Amici direttori di confidi li stanno sperimentando in progetti di integrazione tra 107 e 106. Il bisogno c'è, e i contratti di rete sono una risposta flessibile.
Quando però mi confronto con i termini tecnici del discorso, mi sorgono dei dubbi. Questi dubbi li ho espressi nei mio intervento di ieri.
Dal dibattito è emerso che il "contratto di rete" non è un istituto giuridico "entificato". In soldoni, non può essere controparte di contratti, non ha autonomia patrimoniale, non è soggetto passivo di imposta. E' piuttosto un nesso di relazioni tra le imprese sottoscrittrici, i "retisti", che aderiscono a un progetto comune. La collaborazione al progetto si traduce anche in apporti di fondi (che possono beneficiare di un credito di imposta) e soprattutto in scambi economici: acquisti di beni e servizi, spese di ricerca, messa a disposizione reciproca di asset, scambi di prestazione intra-rete. Questi scambi però non sono accentrati sullo hub "contratto". Sono esplosi in un reticolo di transazioni molti-a-molti tra i retisti e le parti terze. Non so, penso che la gestione amministrativa di questa trama di transazioni verso l'esterno e all'interno della rete sia molto complicata, per tutti i soggetti che vi partecipano. Con la tecnologia si può fare tutto, ma servono procedure automatizzate e ben integrate con le contabilità dei partecipanti. Le abbiamo?
L'altro punto che mi lascia perplesso è quello posto a tema del seminario: il finanziamento dei programmi di rete da parte delle banche. Il contratto di rete non può essere direttamente affidato da una banca. La banca finanzia le imprese partecipanti. Il fatto di partecipare a una rete può migliorare il rating? La risposta è sì, nella misura in cui si traduca in azioni strategiche promettenti in termini di vantaggi commerciali, di costo, tecnologici, ecc, che poi si traducono in crescita del fatturato, aumento dei margini, reddito, cassa. L'upgrade del merito di credito dipende dal giudizio sulla singola impresa. Può essere che tutte le imprese partecipanti ottengano vantaggi, e quindi meritino di essere tutte promosse. Non è necessariamente così.
Ho espresso questi dubbi nel mio intervento. Mi hanno risposto due relatori, Aldo Rigo e Sandro Bianco di Unicredit. Secondo la loro esperienza, i vantaggi ci sono. Hanno precisato, però, che è stata Confindustria a sollecitare inizialmente l'interesse della banca. Molti progetti hanno coinvolto aziende sane e dinamiche, e non è stato un problema finanziarle. Ma che ruolo ha avuto lo strumento giuridico nel migliorare la "bancabilità" del progetto? Direttamente nessuno, a quanto ho capito. Anzi, quando l'attività sviluppata dalla rete comincia a strutturarsi in processi di investimento e di trasformazione economica, il contratto non è più bastato e i promotori hanno dovuto creare società di capitali apposite operanti a servizio del contratto.
Tirando le somme, dobbiamo distinguere il fine (progetti di collaborazione tra imprese per innovare e competere) dallo strumento. Il contratto di rete può essere la soluzione giusta per una fase di avvio, di "fidanzamento". Non è il toccasana, e non bastano a renderlo interessante i benefici fiscali, limitati e condizionati.
Distinguiamo anche tra l'impatto mediatico e l'efficacia reale dello strumento. Il primo è stato ed è tuttora molto forte per l'endorsement ricevuto da Confindustria (le associazioni svolgono la funzione di asseveratori dei progetti ai fini del riconoscimento dei benefici fiscali). Anche commercialisti, avvocati e notai hanno interesse a promuovere il "prodotto", che genera consulenze interessanti, per contenuti e onorari. Le banche sono legittimamente interessate a tenere buoni rapporti con i migliori clienti e facilitatori di affari. Anche loro dicono "che cosa interessante!".
Le imprese, destinatarie di questa campagna di sensibilizzazione, facciano le loro valutazioni guardando ai bisogni reali. Come le innovazioni finanziarie, anche le innovazioni giuridiche possono generare costi di transazione a perdere, pre e post contrattuali. Non creiamo scatole dalla forma inadatta, né passaggi inutili.
Sul tema "contratti di rete" ho difficoltà a farmi un giudizio. Da un lato lo apprezzo come forma innovativa di collaborazione tra imprese; amici commercialisti che stimo stanno lavorando molto per promuoverli in tutta Italia. Amici direttori di confidi li stanno sperimentando in progetti di integrazione tra 107 e 106. Il bisogno c'è, e i contratti di rete sono una risposta flessibile.
Quando però mi confronto con i termini tecnici del discorso, mi sorgono dei dubbi. Questi dubbi li ho espressi nei mio intervento di ieri.
Dal dibattito è emerso che il "contratto di rete" non è un istituto giuridico "entificato". In soldoni, non può essere controparte di contratti, non ha autonomia patrimoniale, non è soggetto passivo di imposta. E' piuttosto un nesso di relazioni tra le imprese sottoscrittrici, i "retisti", che aderiscono a un progetto comune. La collaborazione al progetto si traduce anche in apporti di fondi (che possono beneficiare di un credito di imposta) e soprattutto in scambi economici: acquisti di beni e servizi, spese di ricerca, messa a disposizione reciproca di asset, scambi di prestazione intra-rete. Questi scambi però non sono accentrati sullo hub "contratto". Sono esplosi in un reticolo di transazioni molti-a-molti tra i retisti e le parti terze. Non so, penso che la gestione amministrativa di questa trama di transazioni verso l'esterno e all'interno della rete sia molto complicata, per tutti i soggetti che vi partecipano. Con la tecnologia si può fare tutto, ma servono procedure automatizzate e ben integrate con le contabilità dei partecipanti. Le abbiamo?
L'altro punto che mi lascia perplesso è quello posto a tema del seminario: il finanziamento dei programmi di rete da parte delle banche. Il contratto di rete non può essere direttamente affidato da una banca. La banca finanzia le imprese partecipanti. Il fatto di partecipare a una rete può migliorare il rating? La risposta è sì, nella misura in cui si traduca in azioni strategiche promettenti in termini di vantaggi commerciali, di costo, tecnologici, ecc, che poi si traducono in crescita del fatturato, aumento dei margini, reddito, cassa. L'upgrade del merito di credito dipende dal giudizio sulla singola impresa. Può essere che tutte le imprese partecipanti ottengano vantaggi, e quindi meritino di essere tutte promosse. Non è necessariamente così.
Ho espresso questi dubbi nel mio intervento. Mi hanno risposto due relatori, Aldo Rigo e Sandro Bianco di Unicredit. Secondo la loro esperienza, i vantaggi ci sono. Hanno precisato, però, che è stata Confindustria a sollecitare inizialmente l'interesse della banca. Molti progetti hanno coinvolto aziende sane e dinamiche, e non è stato un problema finanziarle. Ma che ruolo ha avuto lo strumento giuridico nel migliorare la "bancabilità" del progetto? Direttamente nessuno, a quanto ho capito. Anzi, quando l'attività sviluppata dalla rete comincia a strutturarsi in processi di investimento e di trasformazione economica, il contratto non è più bastato e i promotori hanno dovuto creare società di capitali apposite operanti a servizio del contratto.
Tirando le somme, dobbiamo distinguere il fine (progetti di collaborazione tra imprese per innovare e competere) dallo strumento. Il contratto di rete può essere la soluzione giusta per una fase di avvio, di "fidanzamento". Non è il toccasana, e non bastano a renderlo interessante i benefici fiscali, limitati e condizionati.
Distinguiamo anche tra l'impatto mediatico e l'efficacia reale dello strumento. Il primo è stato ed è tuttora molto forte per l'endorsement ricevuto da Confindustria (le associazioni svolgono la funzione di asseveratori dei progetti ai fini del riconoscimento dei benefici fiscali). Anche commercialisti, avvocati e notai hanno interesse a promuovere il "prodotto", che genera consulenze interessanti, per contenuti e onorari. Le banche sono legittimamente interessate a tenere buoni rapporti con i migliori clienti e facilitatori di affari. Anche loro dicono "che cosa interessante!".
Le imprese, destinatarie di questa campagna di sensibilizzazione, facciano le loro valutazioni guardando ai bisogni reali. Come le innovazioni finanziarie, anche le innovazioni giuridiche possono generare costi di transazione a perdere, pre e post contrattuali. Non creiamo scatole dalla forma inadatta, né passaggi inutili.
2 commenti:
Grazie Luca, questo piccolo post chiarisce molto di più di kilometri di articoli fuffisti ed encomiastici.
Le reti d'impresa fanno un gran bene a chi le progetta ... la loro reale utilità è infatti segregata a pochi casi del settore manifatturiero.
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